Periodico semestrale
Registrazione n. 11 del 4/3/2014
presso il Tribunale Ordinario di Torino ISSN 2284-1954
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Al pari delle altre scienze umane, la storia ha perduto da tempo molte delle sicurezze che ne avevano accompagnato il cammino. Di conseguenza, ha visto diminuire la propria capacità di rispondere alle nuove domande che lo scorrere del tempo pone al passato dell’uomo. È come se fosse rimasta attonita di fronte all’impetuosa trasformazione dello scenario in cui viviamo da qualche decennio. La fine del comunismo, la crisi dello stato-nazione, il presunto tramonto delle ideologie, la globalizzazione, il relativismo culturale hanno messo in crisi le tradizionali gerarchie di rilevanza dello storico, e soprattutto dello storico occidentale. Il quale, oggi, sembra rimanere incerto fra due posizioni, tanto divergenti fra loro quanto sterili. Quella di chi, confondendo ciò che è successo nel passato con le immagini e le conoscenze di ciò che è successo, è rimasto intrappolato nelle sabbie mobili del post-modernismo, finendo così col legittimare qualsiasi memoria parziale e sovrapporre storia e ction. E quella di chi, disorientato dalla comparsa sulla scena di nuovi attori che rivendicano un loro spazio e pongono domande nuove, si è rifugiato nell’ortodossia d’antan, replicando, magari in forme sempre più ra)inate, modelli e procedure di analisi rassicuranti e tradizionali. Sembra dunque di essere immersi nello stadio finale di una delle fasi cicliche della storia della scienza: quella in cui, come ci ha insegnato Thomas Kuhn, si studiano tutte le possibili strade per accordarei paradigmi alla realtà, ma lo si fa in modo sempre più calligrafico. La sensazione è dunque che si continuino quasi meccanicamente ad applicare paradigmi formulati in tutt’altro contesto per rispondere a tutt’altre domande. Così facendo, però, si rischia tra l’altro di incorrere nel peggiore dei difetti della storia: l’anacronismo.
Per uscire dallo stallo, non basta certo eleggere la World History come terreno di studio privilegiato e «nuovo», perché l’allargamento della scala non fa automaticamente uscire la storia dalle secche delle generalizzazioni banali e decontestualizzate. Né serve a molto interrogarci sulla congruenza o sulle anomalie dei metodi ereditati dal passato, come si fa di norma quando i paradigmi cominciano ad apparire inadeguati. Semmai, dovremmo interrogarci sulla congruenza e l’anomalia delle domande che ci poniamo oggi, perché l’attuale crisi della storia sembra scaturire proprio dalla loro natura. Per questo motivo, anziché continuare a produrre rinfrancanti conferme della bontà dello statuto e delle procedure storiografiche vigenti, ci pare più opportuno intraprendere la via della sperimentazione, provando a porre nuovi interrogativi. È proprio questo il compito che ci proponiamo. L’idea di questa rivista non nasce dalla presunzione di indicare paradigmi inediti, ma dalla convinzione che sia indispensabile, oggi, sperimentare percorsi e metodi diversi da quelli consolidati. Ma, soprattutto, porsi altre domande. Non intendiamo tuttavia fare della sperimentazione per la sperimentazione: ovvero proporre una sorta di dadaismo storiografico. Il nostro punto di partenza si ispira piuttosto a una nozione non certo nuova nella ricerca storica: quella di contesto, avanzata con forza qualche decennio fa da Edward Palmer Thompson e poi ripresa negli studi di microstoria.
Invece che semplice cornice o sfondo nel quale collocare gli eventi, il contesto fu allora immaginato come un «luogo» non necessariamente fisico, ma principalmente relazionale: come un campo di possibilità di comunicazione e di scambio fra individui.Il contesto non era dunque dato, ma si profilava come una costruzione dello storico, come lo stesso Thompson aveva magistralmente indicato in Whigs and hunters, dimostrando la stretta correlazione fra il bracconaggio nelle foreste del Berkshire e dello Hampshire e l’emanazione nel 1723 del ‘Black Act’, una legge che comminando punizioni draconiane a difesa della proprietà privata inaugurava in pratica il passaggio dell’Inghilterra a una società capitalistica. Questo è esattamente il punto dipartenza di questa rivista: ri=ettere sistematicamente sulla pertinenza dei contesti scelti per spiegare i fenomeni politici, sociali, economici e culturali. E dunque cercaredi individuare le connessioni, esplicite o sotterranee, fra persone, fenomeni, istituzioni, indipendentemente dalla loro condivisione di uno spazio definito. Ci ripromettiamo in altri termini di indagare sulla multiforme natura dello scambio sociale, senza presupporre l’esistenza di gerarchie aprioristiche quali alto-basso, centro-periferia, locale-globale. Avviarsi in questa direzione comporta il recupero delle discussioni e delle pratiche, per noi fondamentali, della microstoria. Con-dividiamo infatti fino in fondo la consapevolezza che lo storico, dovendo dare rispostegenerali a partire dall’analisi di situazioni specifiche, debba mirare a cogliere la complessità dell’esperienza umana mediante un approccio «denso», senza per questorinchiudersi nella dimensione del villaggio evocata da Cli)ord Geertz e, soprattutto, senza rinchiudersi negli steccati disciplinari.
Nel panorama ideologico attuale, fatto di generalizzazioni solo apparentemente deboli, questo compito ha anche una valenza politica. La forza del paradigma unico entro il quale il senso comune attuale pensa il mondo, spesso senza saperlo, consiste nel fatto che tutto – presente, passato, futuro – sembra potersi spiegare attraverso la lente di un mercato – come realtà economica e come metafora culturale – privo di attori e ricco di comparse che obbediscono tutte a una logica unica e senza tempo. Solo le magnifiche sorti e progressive del mercato e del capitalismo costituiscono l’ambito all’interno del quale comportamenti individuali e trasformazioni sociali vanno misurati, valutati, studiati. Ne risulta una sorta di impasse cognitiva che impe-disce di pensare al di fuori di questo quadro; e quindi di proporre altri percorsi che permettano non solo di considerare lo stato attuale delle cose come uno stato transitorio, qual è, ma anche di mostrare la complessità della vicenda umana come uncampo di infinite possibilità che prefigurano futuri diversi.
La rivista riposa su una convinzione ottimista: che la storia e gli storici possano riconquistare un posto centrale nello spazio intellettuale in cui si forma e si di)onde un sapere critico, proponendo le loro competenze non solo e non tanto in termini di semplici «critici delle fonti», di eruditi ferrati nel rintracciare la manipolazione dell’informazione presente e passata, o di commentatori dell’inevitabilità del presente, ma o)rendo una visione del passato prossimo e remoto che provi a rispondere alla complessità delle domande poste dal presente con la complessità della ricostruzione di contesti possibili.